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  • Marco Mammarella

Peppigrizia

Questa storia inizia con un ragazzo che si toglie pantaloni e mutande, poggia un fazzoletto sul pavimento e poi ci caga sopra. È una storia d’amore irrancidito. È ambientata in un garage condominiale e, oltre al protagonista, il defecatore, c’è la persona che ama, l’incognita X, che l’ha lasciato da un pezzo (il nome non si dice perché ripeterlo fa soffrire e rinforza gli abituali schemi mentali di presa a male). Il ragazzo si chiama Peppe ma tutti gli amici, pochi a dir la verità di questi tempi, lo chiamano Peppigrizia, da quando alla domanda di un professore, non si ricorda quale, rispose che faceva quanto faceva “pe‘ppigrizia”, trasformando quel calembour in un attributo diretto del suo nome. Peppe ogni sera si mette il cappotto, saluta i suoi genitori e fa finta di uscire per andare a casa di un suo amico. In realtà scende 7 piani con l’ascensore e si chiude nel suo garage. Cosa esattamente accada lì dentro è dura a dirsi, visto che non è ancora stato inventato un dispositivo capace di spiare attraverso le pareti. Dalla puzza di marijuana che filtra si potrebbe affermare però, con una certa sicurezza, che il ragazzo si chiude lì a fumare e stare solo, nella maniera più degradante che conosca. Perché Peppe pensa di soffrire tantissimo da quando X l’ha lasciato. È passato un anno. Lui ancora piange e trema e vomita nel cesso perché fa fatica a respirare e ha la nausea. Uno spettacolo riprovevole, che raggiunge il culmine quando si chiude nel garage. C’è sempre il rischio che i suoi genitori lo sorprendano, o qualche altro condomino si accorga dall’odore. Forse Peppe aspetta quello, sembra veramente arrivato al limite: forse è in attesa di qualcosa o qualcuno che gli dia l’energia di salire al plateaux successivo. Anche una presa a male infinita potrebbe funzionare. Ora che Peppe è nel garage e la merda fumante è sul pavimento, il dolore vero si fa sotto con lui. Perché Peppe pensava di essere triste prima di entrare lì dentro, a causa del dolore per Lei, ma si accorge in un secondo di quanto il dolore sia solo suo, generato da sé stesso, e amplificato a seconda dei casi dal ricordo di lei, dalla merda sul pavimento, dalla petulanza dei discorsi del padre. Da una crepa nelle mattonelle. Ora è più triste di prima perché questo era il suo piano. Chiudersi lì, pensare un po’ a lei e a sé stesso, e a quanto si fa schifo, e a quanto è incapace di reagire, e quanto lento nell’accettare il cambiamento e impossibilitato all’entusiasmo. Perché in un anno da neolaureato non ha fatto altro che questo: soffrire per lei per non dover soffrire per altro. Nessun progetto, nessuna speranza. Meglio il dolore vecchio di quello nuovo. Pensa questo e intanto gioca a scacchi sul telefono e fuma la ganja. Questa è l’unica forma di sollievo istantaneo che conosce. Peppe parla con sé stesso e aspetta che si facciano l’una o le due, l’orario giusto di tornare a casa per uno che ha fatto finta di andare dall’amico. La merda ora è in una busta di plastica e Peppe considera le opzioni possibili per liberarsene. Un’altra piccola ansia che lo distragga per un po’. Scaraventarla nel cortile condominiale oppure nel cassonetto, sperando che non ci sia nessuno alle tre di notte a buttare la monnezza. E magari lanciarsi nel cassonetto con la merda, ed essere trascinato via dal camion e fatto a pezzi in discarica. Questo il genere di fantasia che costituiscono le digressioni abituali alla monomania per X. Nel garage c’è un sacco di roba accumulata. Un soppalco, con degli scatoloni. Un armadio, con vecchi giubbini. Mensole, con bottiglie di pomodori, sottaceti, succhi di frutta fatti in casa (non riesco a vederli direttamente, ma lo so, perché me lo ha detto Peppe). E un frigo anni ‘70 che si apre a fatica ed è pieno di prosciuttoni e salsiccioni e salamoni e cadaveroni di ogni tipo. Tutta roba buona che ogni tanto Peppigrizia sbircia, anche se non sgarra mai. Non ci inizia a schimicare (poi si sentirebbe in colpa, lo sa) ma ci passa solo il tempo, a far l’inventario delle cazzate che sono nel garage.


Anche i prosciuttoni però possono deprimerlo. Quei pezzi di carne si associano nel suo cervello psicotropico a sgradevoli ricordi di X e delle varie fasi della loro relazione. Con X prima disturbata dalla vista dei pezzi di carne troppo riconoscibili come animali morti, poi pescetariana, poi vegetariana e infine, una volta lasciato lui (rimosso come la tossica carne rossa dalla sua vita), vegana nutrita da beveroni vitaminici, niente caffè e tante nocelle. Ma anche ricordi personali, a ribadire che Peppe è triste da sempre, per ogni cosa, e non è colpa di nessuno. Il ricordo del suo cazzo subito dopo l'anestesia spinale, un pezzo di carne tra le sue mani nel letto dell’ospedale. Il ricordo del topolino comprato alla fiera dell’est e ucciso in quello stesso garage all’età di 8 anni, inavvertitamente, soffocandolo in un gioco perverso volto a stabilire quanto potesse resistere sott’acqua. Il ricordo di quel cadaverino con il ventre gonfio, disgustoso agli occhi di Peppe, che ne martellò il corpo fino a spazzarlo via dalla sua vista. Peppe associa il prosciuttone a tutto questo, in particolare al topolino Eddie, e pensa malinconicamente a quando era ancora convinto di aver superato quel momento, presente nella vita di ogni bambino, in cui si corre il rischio di diventare dei serial killer. Forse, pensa Peppe accovacciato con la testa nel frigo, lui quella fase lì non l’ha mai superata. Ecco perché ha ucciso la sua relazione. Forse è davvero psicopatico. Ecco perché le persone lo lasciano. Perché non vogliono diventare sue vittime. Questa è la trafila di pensieri autocommiseranti che vanno avanti in quelle ore, in quel garage. Questo è Peppe ora, che però, lui non lo sa, ma io sì (visto che non posso spiare attraverso le pareti ma nella sua testa ovviamente posso), non è il Peppe che stava con X e non è nemmeno il Peppe che risalirà i 7 piani con l’ascensore per tornare a casa. E io, che sono fuori dal garage, e vedo e non vedo, capisco, so, ma anche non capisco un cazzo, vorrei bussare contro la saracinesca, che fa un casino di rumore, e dargli una svegliata con due schiaffoni assestati bene. E dirgli mentre piange, perché piangerebbe, che ora è un altro, e può farcela in ogni istante a salvarsi.

Nel garage, tra gli scatoloni, (la merda è ancora imbustata, non si è ancora deciso a risalire) Peppe trova piccoli scorpioni, che vivono nascosti sotto l’intonaco che si va staccando. Sono neri e le pinze sono più grandi della coda. Questo vuol dire che non sono velenosi. Però Peppe ne ha comunque paura, e infatti appena ne vede uno prende un barattolino di vetro e ce lo chiude dentro. Poi svuota i barattolini nel cortile condominiale: perché è spaventato a morte, ma questo non lo ha ancora reso cattivo, inutile uccidere ciò che ti spaventa. A volte, peppigrizia, si dimentica di liberarli; ha così scoperto che quei figli di puttana, al contrario di Eddie, possono resistere all’infinito chiusi in un barattolo, anche senza mangiare per giorni e giorni. Pensa a questo perché a fianco a lui ce n’è uno. È bello grosso e lo ha imprigionato 4 o 5 giorni prima. Per la prima volta, e questa è nuova (e infatti quasi quasi io entro per vedere meglio) Peppe immagina di aprire il barattolino e porgere la mano alla bestiola per farsi mordere. Perché è davvero stanco di essere terrorizzato da ogni cosa, e in fondo ora si sente un po’ come lui, lo scorpione. Chiuso in un barattolo di vetro che lo tiene prigioniero; dovrebbe essere morto, per mancanza di ossigeno, ma miracolosamente continua a respirare. Disperatamente stanco quanto può esserlo uno che passa le sere nel suo garage a cacare, fumare e struggersi nel ricordo della sua ex. Tanto stanco da preferire la morte, seppure simbolica, al dolore. E allora questa versione di Peppe, inaspettata anche per me, forse un po’ mi piace e la lascerò fare. Peppigrizia lascerò che un po’ di sangue scorra; perché se è vero che è nella natura dello scorpione pungere, è vero anche che lo scorpione cambia in ogni momento, proprio come Peppe. E questo rende il risultato imprevedibile.

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