Antologia di racconti, Ideobook editore, 2020
Secondo certe tradizioni africane, i fantasmi degli antenati affiancano il giovane uomo nel suo rito di iniziazione, e in seguito, in ogni istante della sua vita. Celebrarli è un dovere, perché è attraverso il loro sostegno che passa la forza e la capacità del futuro guerriero. Immagina: una persona, e dietro di lei una folla di uomini e donne, che cresce esponenzialmente man mano che si risale indietro nel tempo. Ogni gesto è frutto di una volontà collettiva. Ogni tratto è espressione di uno stesso volto che si ripete, con piccole variazioni, da millenni. È a tutto questo che G. pensa steso sul letto, alle tre di notte, col cellulare che gli illumina il volto e inizia a scottare tra le mani. Prova a immaginare le centinaia di persone che stanno dietro di lui, lì dove effettivamente c’è il muro. Quella folla di fantasmi, a tentare di metterla a fuoco, gli dà i brividi. Può solo concentrarsi e provare a sprazzi a ricostruire un ramo o l’altro della sua genealogia. All’inizio sono solo gesti: due mani nodose che impastano la calce o stendono binari in qualche landa desolata. E mani più gentili, che intrecciano giunchi, spennano tordi, ammassano paste. Poi i gesti si trasformano in volti e la folla diventa una Torre di Babele. Ci sono i Dago con le canottiere ingiallite dal sudore e le collanine d’oro di san Cristoforo, che ripetono come un mantra “Orràit”; e ci sono i Welsh dai begli abiti confezionati e gli occhiali Rayban, di qualche foto in bianco e nero scattata a Dresda o nella Foresta Nera. C’è chi si accapiglia per mettersi in mostra al suo sguardo, per esempio quel tizio che gioca con la lama del suo coltello a serramanico, perché essere visti da lui vuol dire essere ricordati, e ciò corrisponde alla redenzione di una parte dei peccati, e a un anno in meno in purgatorio (almeno per chi tra i suoi antenati è cattolico, e ha di che farsi perdonare dal padreterno). Ma c’è anche chi cattolico non lo è affatto, cristiano nemmeno forse. Un uomo, con lunghi baffi a manubrio, bestemmia mordendo un pezzo di pesca zuppo di vino rosso e ricorda a G. che Dio non ha fatto nulla per lui, se non fregargli il desiderio. Non ha le scarpe sotto i pantaloni di fustagno, ma uno spesso strato di pelle morta. Più vicini, più riconoscibili, nelle prime file, un uomo che calcola la portata di un fiume e disegna il progetto di una turbina; una donna cinta da pile di fogli, che batte su una calcolatrice. Sono i suoi genitori, e non parlano: sorridono. A fianco a G. una ragazza, ha qualche anno più di lui. Calcola con un software al computer la propulsione di razzi da lanciare in orbita. Manovre spaziali di avvicinamento, satelliti, tute da trecentomila dollari. Ora che smette di immaginare e inizia a riflettere, la cosa che più lo impressiona delle sue visioni è che a ciascun volto associa un’azione. Ogni avo è espressione di una funzione, riconoscibile dal ferro del mestiere. Come in un olimpo famigliare, ogni divinità ha le sue caratteristiche. E tu, gli viene da chiedersi, quale il tuo ferro, quale il tuo motto, quale la tua storia? Sei davvero tu la profusione di quel sangue? Tu, la quintessenza di un seme che arriva dagli albori della vita sulla terra? La folla lo fissa; hanno tutti lo stesso sguardo severo sul volto e G. si alza con la schiena fino ad appoggiarsi al muro, schiacciato. In quegli sguardi legge un rimprovero: questo il nostro campione, dopo secoli di fatiche e sacrifici? Ora è un processo e lui l’imputato. G. non sa quale sia il suo mestiere, lo ammette candidamente. Però una parte del suo racconto l’ha già scritta.
È una storia che inizia in un paese di provincia, sulle stesse ripe dove zappavano i suoi antenati, negli Appennini, ma stavolta nella cameretta di una comoda villa famigliare. La storia del G. bambino, ossessivo, che di notte si alza per controllare più e più volte che le luci di casa siano spente. Del G. adolescente che si ingozza di malinconia, chiuso nella bara del suo fisico e nella cappella del suo mutismo selettivo. Una donna dall’abito di stoffa pesante emerge dalla folla e puntando l’indice contro G. irride i suoi complessi, ricordandogli come lei potesse a malapena permettersi un pollo la domenica, dopo una settimana con la schiena rotta ad impilare foglie di tabacco, se tutto andava bene. Ma ci sono altri fantasmi pronti a zittirla, vogliono continuare a sentire. In particolar modo uno. È il nonno di G., e in quel cimitero che il nipote ha eletto a rifugio, lui ci va tutti i giorni. Pulisce le tombe dei parenti, porta fiori freschi. Dice che lì si sente meglio che a casa. Un tempo, dalla montagna al fiume, in ogni strada c’era la casa di un amico. Ora le case dei vivi sono vuote. Per un appartamento nei condomini dei morti invece si devono attendere parecchi mesi. E lì che li ritrova tutti, dice. Non si sente più solo in quella città funerea. E in quel suo sguardo, forse, G. legge un altro rimprovero o un ammonimento: come se il vecchio, con i suoi fiori freschi in pugno, fosse un exemplum. Come a ricordargli di quello che toccherà fare a lui, una volta che il fantasma del vecchio, per ora ancora definito, sarà sfumato in una nebbia indistinta: la stessa che avvolge gli altri a fianco a lui nella folla. G. abbassa lo sguardo e ricomincia a raccontare. Parla del G. disperato che fugge di città in città, lasciandosi andare furente al piacere della carne contro la carne e della sostanza chimica artificiale diluita nel sangue (e qui l’uomo con la pesca in bocca gli strizza soddisfatto l’occhio). Ora la stanza si riempie di cataste di libri e la folla è costretta a stringersi. Muraglie di tomi che si ergono per proteggerlo nel suo viaggio attorno al mondo. Che siano quelli i ferri del suo mestiere? Il corrispettivo moderno dello scudo dell’antico guerriero? È una domanda, la sua, a cui la folla non trova risposta. Chi sputa per terra, con disprezzo, chi volta lo sguardo. Ma nessuno che parli. È tutto qui? Si, è tutto qui. G. si rabbuia e torna a riaccucciarsi sotto le lenzuola, coprendosi dalla vista opprimente di quella folla. È tutto qui; una consapevolezza che gli rimbomba nel cervello più e più volte. Sono 5 giorni che non esce di casa e il pavimento della camera da 400 euro in affitto è pieno di polvere che si appiccica sotto la pianta dei piedi, e cenere. È una cosa che odia, sentire la polvere che gli insozza i piedi, e gli fa venire il disgusto per sé stesso. Per questo la lascia in quelle condizioni. Questa è l’ultima parte del racconto. È in una grande città italiana: potrebbe essere Roma, dove il padre si è rotto la testa sui libri perché un giorno lui potesse desiderare la morte in quella stanza pagata con i suoi sforzi. Oppure potrebbe essere Milano, del suo antenato con la camicia rossa morto a 23 anni (la sua stessa età) e 3 figli in nome di una cosa che non si mangia, né si beve, e che sta in alto, lì fin dove lo sguardo può alzarsi. Gliela indica il fantasma, ma G. non riesce a scorgerla. Vede solo una vecchia foto, di un album di famiglia nascosto in cantina, scovato casualmente in un’estate di noia selvaggia. L’immagine di un corpo straziato dai mitra, di una camicia doppiamente rossa. No. G. scaccia la visione e con essa il fantasma dall’indice alzato. E si sforza di immaginare un altro paese, forse New York, forse Parigi, forse Mosca. Chissà. Ogni posto è uguale a un altro. Ogni terreno, scuro, chiaro, ogni vegetazione, folta, rada, fatta di cipressi o di cactus, di alloro e mirto o di eucalipto, tutto è uguale a tutto. Dovunque fugga con il pensiero, lì la folla lo segue, e la sua corsa, i suoi passi uno dietro l’altro, sono i passi della folla. E i suoi tentativi di scacciare quei fantasmi sono i gesti di quella moltitudine di avvicinarlo. G. si ferma sotto una grande statua, forse la Statua della Libertà, forse un albero enorme, e lascia che i fantasmi lo raggiungano. Si arrende. Ora, generazione dopo generazione, i suoi avi si dispongono tutt’intorno a lui. Sembrerebbero aggredirlo. Minacciosi lo stringono in una morsa. G. fatica a respirare. Ma la minaccia si scioglie presto: i fantasmi passano attraverso il suo corpo, uno dopo l’altro, e scompaiono. Ognuno con lo stesso sorriso storto, lo stesso sguardo benevolo, la stessa frase sulla bocca: un sussurro incomprensibile per G. che però gli lascia una strana sensazione di pace appiccicata addosso. Parole balsamo. Lui è il portale attraverso cui loro svaniscono nel nulla. G. riapre gli occhi. È di nuovo nel suo letto. La folla è scomparsa e lui è rimasto solo nella stanza. Non ha più sonno, anzi, sente una certa energia addosso. E quella stanza impolverata, e sozza, che rifletteva fino a qualche istante prima il suo umore nero e ruvido, ora gli sembra un’offesa a loro, i fantasmi. Si alza dal letto e comincia a pulire. La polvere e la cenere, sì, ma anche il fango, la calce, le molliche, il sangue, i pezzi di carne e i pezzi di pesca, i fiori freschi e le foglie di tabacco, le toppe di lino e i trucioli di legno; le schegge di ferro. Ora il pavimento è sgombro, e G. si sente pronto per il suo rito di passaggio. Col sorriso sul volto esce dalla stanza, lasciando la porta spalancata: per le centinaia di persone, uomini e donne, di tutte le forme, che seguono il suo passo e attraversano la soglia subito dopo di lui.
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