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  • Marco Mammarella

Il Noir è sopravvalutato

Racconto breve


Le scuole di cinema costano parecchio. Trentamila dollari la New York Film Academy, ventimila la London Film School. In Italia non ne esistono di buone. Forse la Rufa è decente, ma è un po’ un minestrone che non serve a un cazzo, a mio avviso. Meglio andare lì dove il cinema prospera: almeno, se dovrà insegnarmi qualche filmmaker fallito, sarà qualcuno che viene dalla capitale del mondo e non dalla periferia. Fatto sta che la domanda per la New York Academy l’ho compilata. Ora tocca trovare i soldi. E qui entra in campo mio zio. Claudio, ha 53 anni ma ha il fisico e l’aspetto di un 30enne. A un esame dalla laurea ha dovuto ritirarsi dall’università (scienze politiche) e tornare a lavorare come falegname/mani d'oro/aggiusta-tutto perché i suoi non potevano più sostenerlo economicamente. La cosa l’ha abbastanza traumatizzato secondo me. Da giovane gaudente che viaggiava a cavallo della sua Africa Twin per tutta Europa, raccogliendo un bouquet di boccioli internazionali, si è sposato con una dominatrice, a cui non può mai dir di no, né parlare alzando il tono della voce oltre una certa soglia d'allarme. Da quando sono piccolo è una sorta di padre putativo per me: è con zio Claudio che parlo quando sono in cerca di consigli. È nel suo laboratorio che andavo a far danni, costruendo qualsiasi cosa strampalata mi venisse in mente: dalle spade di legno con cui giocavo da bambino, ai mobili mini serra Indoor con cui giocavo da adolescente. E poi era lui a risolvermi i problemi, di qualsiasi natura fossero. Si rompeva il motorino e lui metteva mano alla marmitta. Mi beccavano con 10 g di ganja in casa e lui andava a parlare con i miei. Mi serviva un lavoretto da fare d’estate e lui mi assumeva, chiudendo un occhio sull’orario in cui arrivavo la mattina e allungandomi la cinquanta necessaria per un fine settimana degno di questo nome. Non si è mai, e dico mai, incazzato con me. Anzi, non l’ho mai visto incazzato con nessuno. Alzare la voce o offendere oppure assumere un’espressione adirata. Cosa mai successa con lui. Secondo me è timidezza, più che pacatezza. Ha cinquantaquattro anni, ma ancora cerca di nascondere agli altri che fuma un pacchetto al giorno. Deve sempre andare al bagno, anche se poi lo vedi tornare che puzza di fumo, mai di merda. E poi è lui che mi ha svezzato passandomi la passione per libri e film: gli ho saccheggiato la libreria mille volte, gli ho fregato tutti i libri e i fumetti di Nathan Never. Lo zio ne era solo felice. Mi ha incoraggiato in ogni modo e ora è qui, a tentare insieme a me di risolvere l’annosa questione dei soldi necessari per iscrivermi alla scuola. Non ho dovuto trascinarlo; non l’ho nemmeno chiesto. Ha scoperto che stavo per iniziare a lavorare in un call center per autofinanziarmi, rimandando la traversata oceanica a data da destinarsi, e mi ha chiamato. Mi ha detto che era una cazzata e non mi avrebbe permesso di buttare all’aria il mio sogno (chiaramente gli ho riempito la testa con questo desiderio fin da quando ho 14 anni: si è subito tutte le mie sceneggiature e i miei filmini amatoriali del cazzo). Prima ha considerato i pro e i contro: qualche altra scuola? Sì, ma non a livello. È necessaria una scuola? Se vuoi agganciare qualche contatto, sì. Ok, allora troveremo una soluzione. Mi ha offerto un caffè e poi mi ha lasciato andare. Due giorni dopo mi ha chiamato dicendo di aver trovato la soluzione. Efficiente, pragmatico, come sempre risolutore. Aggiusta-tutto fino al midollo. Ecco spiegato il motivo per cui siamo fuori dal centro commerciale alle due di pomeriggio. Ecco perché lo zio indossa il passamontagna, scivola sotto una macchina e aspetta che arrivi il camion portavalori. È luglio inoltrato e fa un caldo da sgusciarti vivo. Ma lui suda sotto la lana e disarma un tizio armato di mitra per poi puntarglielo addosso. È stato negli alpini, casco blu durante la guerra in Bosnia. Mio zio è un tosto. Minaccia di uccidere un uomo per me. Forse è la cosa più romantica che mi sia capitata. Due sacche piene di contanti vengono messe nelle sue mani. Lui scivola dentro la macchina (a cui abbiamo coperto la targa) e ce ne andiamo, con due sacche, due mitra, e un mazzo di chiavi, senza colpo ferire. Passiamo davanti all’ingresso come due normali clienti, e lo zio per un attimo si affaccia a guardare: c’è una piccola possibilità che sua moglie sia lì, in pausa, a fumare una sigaretta. È lei che inconsapevolmente gli ha dato l’idea. Ma non c’è. Ci allontaniamo tirando in sincrono un sospiro di sollievo. Il centro commerciale è a ridosso di un fiume: quando l’hanno costruito, anni fa, avevano promesso di creare degli argini e un parco botanico, per evitare le alluvioni. Ma ad oggi, ogni volta che piove, il centro commerciale si allaga, e nel parco botanico ci scopano le coppiette e si bucano i tossici. C’è anche qualche pazzo che ci pesca di tanto in tanto, incosciente dei veleni che vi si riversano prima di arrivare a quel punto. È lì che nascondiamo la macchina. È la macchina di mio nonno, il padre di Claudio, che da quando ha avuto un aneurisma non guida più, né si oppone a nulla. La macchina nascosta nella boscaglia (niente targhe, numeri di serie coperti in precedenza), noi che entriamo nella macchina di mio zio, lasciata lì per il ritorno. Togliamo i soldi dalle borse e controlliamo ogni singola mazzetta. Nessun GPS, entrambi abbiamo visto “Non è un paese per vecchi”. Un piano perfetto. Questo è quello che vorremmo dirci a vicenda. Ma un muro senza crepe non esiste. E così, nello specchietto, ci accorgiamo che c’è una macchina ferma dietro la nostra. Una macchina che ci ha seguito senza che ce ne accorgessimo. Eccola, la polizia, bisbiglio. Ma non è niente del genere. Un gruppo di zingari che vive sulle rive del fiume ci ha visto armeggiare con targhe e borsoni e ha capito tutto. O forse ci ha visto rapinare il camion. Non lo so. So solo che ora ora sono dietro di noi, che ci bloccano la strada con la loro Mercedes del 2001. Uno dei quattro ha una pistola e ce la punta addosso. Con un sorriso storto ci dice che saranno onesti e vogliono solo metà dei soldi. Faccio un rapido conto mentale e mi rendo conto che vogliono 60mila bigliettoni, lo dico a mio zio: vogliono 60mila bigliettoni! Mi sento in un maledettissimo noir degli anni ’50: che diavolo mi salta in mente, con una pistola puntata addosso, di usare la parola bigliettoni. Io sono stato sempre portato al compromesso; una debolezza più che una virtù. Se fosse per me cederei subito. Ma mio zio ha fatto l’alpino. Mio zio è stato in Bosnia. Mio zio è un tosto. Prima che me ne renda conto ha già ingranato la marcia e superato il blocco, andando a sbattere contro il paraurti della loro macchina. Cominciano a piovere pallottole. I bigliettoni sono in salvo. Ma solo per ora, maledizione. Quello che segue poi è confuso, e non ricordo granché. Io voglio che smettano di seguirci, così comincio a gettare manciate di soldi ad ogni curva, per invogliarli a fermarsi, ma non serve a nulla. Maledico me stesso per aver disdegnato il genere noir: i miei piani sono fallimentari, la mia fantasia si è già prosciugata, non ho abbastanza reference. Cosa cazzo faremo? I soldi si spargono ai lati delle strade, la rincorsa non si interrompe. Quelli continuano a seguirci, attraverso stradine strette, in mezzo alle campagne, tra filari di pioppi e olivi bassi. Per un po’ riusciamo a tenerli a distanza, e, sfruttando un punto cieco, zio lancia le borse in un campo. Poi apre lo sportello e lancia anche me: una mossa inaspettata. Gli zingari mi sfrecciano davanti senza rendersi conto di nulla. Sono sotto a una cunetta, con 120 mila euro (di meno, maledizione, di meno. Un migliaio li hai buttati nel fango) da nascondere in un campo. E così faccio. Cerco un albero come punto di riferimento. Con l’ansia che mi divora, devo scegliere un punto perfetto, nessuno deve trovarli. Finalmente vedo un vecchio salice e dietro, una serie arbusti che fungeranno bene. Staccarmi da quei soldi è la cosa più difficile che abbia mai fatto, soprattutto perché il salice è piangente e la superstizione è un altro dei miei punti deboli. Ma devo farlo: per placarmi, penso che tanti bigliettoni non ce li ho avuti mai, e perderli sarebbe tornare alla situazione iniziale. Nascondo, faccio il segno della croce e torno in strada, pronto ad aspettare chissà quanto, ma mio zio è lì, è lui che aspetta me. Non mi avvicino neanche alla macchina, mi urla a distanza che non ha senso lasciare i soldi all’aperto. Maledicendo me stesso, torno indietro. Ma quello che trovo, non è quello che ho lasciato qualche istante prima: ora tutto è cambiato, il salice non riesco a vederlo. Il campo si è riempito di bufale e bufali e non mi raccapezzo più. Ora mi accorgo che c’è anche un edificio: attraverso i vetri si intravedono degli alberi, dall’altra parte. Sconvolto dall'inatteso, sono costretto a entrare in una specie di galleria, piena di quadri appesa alle pareti e bufale nel giardino. Un incrocio tra una casearia e una pinacoteca. Un uomo, vestito elegantemente (sembra uscito dalla Parigi degli anni '20: un Modigliani mozzarellaro), vede che mi aggiro confuso nell’edificio e mi ferma. Con un sorrisetto compiaciuto sotto i baffi a manubrio mi comunica con toni enfatici che sì, è evidente: si nota il mio forte desiderio d’arte. È un pittore, e lui le nota queste cose, dallo sguardo, dalla camminata. Io però non ho tempo per queste stronzate, in qualche modo lo dissuado dalle sue dissertazioni sull'evidenza fisica dell'animo artistico e mi faccio indicare l’uscita che porta al retro dell’edificio. Finalmente ci sono: il salice è lì. Così come lì sono centinaia di contadini che lavano le bufale con lunghissimi tubi di gomma; schiuma e merda dappertutto, per un attimo che pare infinito, temo che i soldi si siano infradiciati o che qualche bufala ci abbia defecato sopra. E Invece sono ancora lì, sotto l’albero, dietro l’arbusto: intatti. Per il sollievo abbraccio e bacio l’albero che li ha protetti. Poi prendo i borsoni e torno in strada. Mio zio è ancora sul ciglio della strada, che aspetta. Mi sembra che le bufale si allontanino a una velocità intergalattica: ora sono ad anni luce da me, eppure ho fatto pochi passi. Quando mi vede arrivare, zio impallidisce, ma non ne capisco il motivo. Mi fa salire in macchina in tutta fretta. Provo a raccontargli delle bufale e del pittore, provo a chiederli degli zingari e se si vede la mia predisposizione per l'arte, ma lui non mi vuole rispondere, dice solo che dobbiamo sbrigarci, che è troppo grave. È solo allora che mi accorgo del sangue che sgorga inzuppandomi la maglietta. Questo è l‘ultimo ricordo. La scuola di cinema è lontana, come le bufale. Il mio grande desiderio d’arte si nota, ma non verrà soddisfatto. O almeno credo.

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