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Marco Mammarella

Cazzi sul quaderno

Racconto Breve


Disegnava sempre cazzi sui quaderni. Compagno di banco da sempre, si era fatto notare per questa sua peculiare forma di rappresentazione artistica. Monotematico come Renoir, non dipingeva fiori ma bouquet di cazzi.

Io, scorgendone il talento inespresso, avevo tentato con presunzione di elevarlo, proponendogli esercizi volti a disintossicarlo dalla sua insana monomania. Durante le lezione, tra una critica della Ragion Pura spiegata dalla professoressa laureata in teologia, ed una terzina dantesca parafrasata, mettevo un foglio tra i due banchi e iniziavo a disegnare il lato sinistro di un corpo. L'esercizio era semplice e aperto ad ogni possibilità creativa. Lui avrebbe dovuto disegnare la parte destra fino a ricongiungere i due tracciati e unificare la figura. Un mostro bifronte che aveva l’enorme potere di farci passare indenni nello spirito quella disciplina spietata che conduceva gli altri all'apatia.

Era interessante guardare le differenze nei tratti: io, rozzo amatore, finivo per appiattire nella bidimensionalità il mio personaggio; lui con chiaroscuri e volumi ben definiti riusciva a costruire la falsa impressione di un corpo solido, tridimensionale e vivo, sorprendendomi ogni volta. Anche se, immancabilmente, concluso il disegno, unificate le parti, finiva per inserirvi il suo nucleo tematico originario. Un enorme cazzo stilizzato che copriva il foglio; la sua firma autoriale.

Come poteva un’artista, perché tale lo consideravamo tutti noi, tanto fine nella cura del disegno, infangare le sue creazioni in modo così grossolano? Cos’era quella, avversione o rifiuto della sua arte? L’insoddisfazione dell'artista incapace di cogliere l'infinito? Per lungo tempo non riuscii a capire. Lui prendeva tutto per scherzo e alle mie domande rispondeva che quella era l'unica parte realistica del disegno, l'unica che gli piacesse.

Per tre anni al liceo dovetti evitare di lasciare fogli o quaderni a portata di mano. Ben presto potei farne a meno. Lui abbandonò la scuola dopo la prima bocciatura e il banco venne occupato da un altro. Da quel momento, per altri due anni, niente più disegni, solo apatia.

Non ebbi più notizie di lui. Si disse che era andato a Copenhagen, a far cosa non si sa: si parlò di droghe e strani traffici, ma nessuno ne ebbe mai la certezza. Però un giorno di pioggia, particolarmente caro a chi come me ama crogiolarsi nella malinconia del passato, mi capitò tra le mani quella serie di disegni, conservati in un vecchio quaderno. E finalmente riuscii a cogliere il suo segreto.

Presi separatamente questi non erano altro che disegni sfregiati, volgarizzati da quella turpe apposizione. Ma in serie, sfogliati uno dopo l'altro, mostravano le infinite varianti della costante alla quale l’artista riduceva la realtà. Mille modi di rappresentare quella che lui considerava l'essenza della vita. Ecco il perché della stilizzazione: come un grande pittore astratto, riduceva il mondo alle sue forme pure: l'impalcatura fallica della vita.

Ero finalmente riuscito a comprendere la grandezza della sua opera e da quel giorno smisi di contemplare la sua vita con commiserazione. La fine probabilmente fallimentare della sua esistenza altro non era che il suo capolavoro. Con una grande freddezza, col coraggio che solo un'artista vero può avere, era riuscito nella terrificante impresa di tracciare un cazzo anche su quell’opera, incompiuta fino a quel momento, che era la sua esistenza.


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