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Marco Mammarella

La triplicazione

Trenta milioni di lire. Nonno Peppe ricordava spesso quell’affare in borsa, combinato grazie al cognato, dei dieci milioni trasformati in trenta. Dieci milioni in contanti trasportati in borsetta dalla nonna fino alla banca. Dieci milioni di sacrifici, e quanti sospiri e frasi interdette nel ricordarlo. E che pesantezza, che attaccamento al denaro. Sempre lo stesso identico ricordo, pensava il nipote. Anche perché, cosa ne aveva fatto il nonno? 30 milioni investiti per comprare una cappella al cimitero. Cemento grigio, 7-8 tumuli e la soddisfazione di avere un posto garantito nell’aldilà, come in fila alle poste. Nonostante piangesse spesso la miseria del suo passato, aveva speso trenta milioni per costruire un’orribile cappella modernista al cimitero. Nonno, a che pro preoccuparsi di un aspetto tanto insignificante come tutto ciò che va oltre i limiti dell’esistenza? Avrebbe potuto passare la vecchiaia ammollo in qualche piscina a bordo di una nave da crociera, come tutti i vecchi noiosi, o sputtanarseli dedicandosi a droghe e puttane, come tutti i vecchi cool, e invece niente di tutto ciò. La bara, la cappella. Ma il vecchio ne era così orgoglioso. Era il migliore affare della sua vita: un affare di morte. E non passava pranzo della domenica in famiglia, quando si iniziava a parlare al passato, che il nonno non ricordasse quell’acquisto.

Luigi, Peppe per gli amici, come tutti gli ex muratori, della casa aveva un’opinione sacra e della morte un rispetto che sfociava nel terrore misto a rassegnazione. La cappella non era che il culmine di un’intera vecchiaia passata nella lenta ritualità dell’attesa della morte. Peppe l’aveva costruita per stare più comodo in uno dei posti che preferiva. Il cimitero, oltre la farmacia, era infatti il luogo in cui si muoveva con più disinvoltura. Dal cimitero di Bucchianico a quello di Chieti, poi a quello di Roccamontepiano e Casacanditella. In ogni paese una tomba a cui portare fiori, un vialetto dai cui estirpare erbacce. Tutti piccoli lavoretti, visite di cortesia che lo impegnavano nelle lunghe ore altrimenti vuote. D’altronde che fare? Al massimo occuparsi dell’orticello dietro casa. Una trentina di mq, una miseria di attenzioni. Tutt’al più accompagnare la nonna in una partita a briscola con i compari in visita, o in visita ai compari. O passare il tempo nella quotidiana attesa del rosario su Tele Duemila, con la madonnina di Lourdes pronta a benedire telematicamente le giornate delle vecchine di tutto il mondo.

Nonna Rita almeno aveva i ferri per cucire, oltre il rosario. E la cucina e la casa, con le loro incombenze lunghe e faticose, sempre piene di nipoti, figli, gente pronta a mangiare a sbafo per la felicità della donna, ferita mortalmente da ogni rifiuto del cibo, dalle insalatine insipide richieste dai nipoti a dieta. Perché quello era il suo mestiere, accettato acriticamente come una missione anni or sono, e se le fosse mancato quello forse avrebbe girato per cimiteri insieme al marito.

L’occupazione del nonno destava qualche critica da parte della moglie, che riteneva la sua un’ossessione più che un rispetto verso i cari estinti. Se n’era uscita una volta, con un invito al nonno a passare i pomeriggi in osteria, come tutti gli altri vecchi normali, a giocare a Tressette e bere rosso. Ma niente, il nonno incurante aveva continuato ad aggiustare il lumino di un cero che non ne voleva sapere di accendersi: una delle tante attività parallele che accompagnavano il suo ruolo non ufficiale di guardiano dei numi tutelari.

I figli e i nipoti avevano le idee più disparate sul fenomeno. C’era chi, come l’unico figlio maschio, considerava quell’attività come un segnale del rincoglionimento del vecchio, del suo sentirsi più di là che di qua. Chi invece come una mossa disperata, la ricerca di attenzione da parte di un uomo solo, pronto ad abbandonarsi alla morte se i nipoti avessero smesso di frequentare con assiduità la sua casa. E così si spiegavano anche le sue chiamate recriminatorie dopo qualche giorno di silenzio, quando l’icona del nonno compariva sul cellulare con le usuali parole ad annunciarlo: «Io vorrei capire che ti ho fatto, che non vieni più!». Ma c’era anche una terza fazione. Quella che riteneva la cura delle tombe come un tentativo del vecchio di lasciare un esempio ai parenti, nel solco del vecchio detto evangelico «Fate agli altri ciò che volete che sia fatto a voi». Il nonno tutti ascoltava giudicarlo e zitto se ne stava. Non rispondeva alle provocazioni, nessuno avrebbe mai potuto capirlo, non prima degli 80 anni.

Il cimitero riprendeva per lui l’antico nome di città dei morti. Sempre così restio ad ammettere a sé stesso i suoi veri desideri, ad essere conscio di sé, sfruttava quegli interlocutori silenti per farsi delle lunghe chiacchierate, esattamente come voleva lui. Tutto era spiegato. Non c’era bisogno di farsi capire o sforzarsi di raccontare antefatti, inevitabilmente confusi nella sua mente zeppa di ricordi. I dialoghi con i sepolcri rappresentavano la possibilità di aprirsi con degli amici sinceri, comprensivi, muti soprattutto, quindi acritici e attenti alle sue parole. E quel simulacro di città, abitato da fantasmi, era diventato col tempo la sua vera patria, man mano che l’altra si andava svuotando e i suoi vecchi amici si trasferivano. Inutile cercare di riportarlo di qua.

Aveva continuato a fare avanti e indietro, comprando fiori, lumini, vasi e vasetti. Parlando a questo e a quello, anche a quegli stronzi che in vita poco poteva sopportare. Ogni giorno il cancello di casa si apriva e la sua vecchia Delta lentamente sgusciava fuori dal garage. I suoi brevi viaggi erano segnalati da quel cancello lasciato aperto e sempre più malvisti dalla comunità parentale, man mano che l’età avanzava. Perché rischiare prendendo la macchina? Lentamente avevano instillato nel vecchio un sano terrore della guida, ma quell’ultimo angolo di serenità, di pace eterna, non gliel’avevano potuto togliere. Certo, le visite ai cimiteri più lontani si erano diradate; pace per zio Biasetto a Bucchianico; zia Giovina se ne farà una ragione a Bolognano, se lui non va più a trovarla. Ma il cimitero di Chieti, quello non glielo levava nessuno. Anzi, si era fatto conoscere dalla piccola comunità che vi gravitava attorno, tanto da farsi chiamare per nome dai venditori di fiori che riservavano per lui i lumini con le insegne di padre Pio, le più amate da tutti i cafoni del sud Italia. Tanto da riuscire ad ottenere il pass per entrare nel cimitero con la macchina ed evitare i terribili saliscendi da fare a piedi, mortali per le sue ginocchia.

In macchina al cimitero, la sbarra si alza e lui si aggira tra le tombe con la Delta del ‘87. La sua seggetta da pescatore poggiata a terra e lui seduto davanti all’effigie di questo o di quell’altro. Questo il suo cupo regno. Forse il fascino macabro esercitato su di lui dal cimitero derivava da un’inclinazione melanconica tutta della sua famiglia. Lui era clinicamente depresso: ogni giorno prendeva la sua dose di litio, stando attento a non berci troppo su (anche se c’era chi sospettava, il nipote, sempre lui, che in cantina nascondesse delle riserve, lontane dagli occhi indiscreti dei figli, da quando lo aveva sorpreso ad armeggiare con una bottiglia nascosta dietro la tanica dell’olio). Il padre era morto di cirrosi epatica per il troppo bere, dopo una lunga agonia di delirium tremens, sostenuto e giustificato nel suo alcolismo dalle terribili esperienze in trincea durante la prima guerra mondiale (non tanto gli austriaci quanto i crudeli capoccia italiani lo avevano traumatizzato). Uno dei fratelli morto di crepacuore dopo aver visto dilapidate le sue ricchezze dai figli, che avevano portato al fallimento l’impresa edile costruita faticosamente con clientelismi e magheggi di vario genere. E poi due nipoti suicidi: Giovanna, persa nell’Adriatico dopo una nuotata alle 4 di notte. Patrizio, appeso ad una delle sue cravatte multicolore nel bagno della casa al mare. Tutti morti tristi come lui, forse per questo ci si trovava così bene: una dannazione genetica o una maledizione. Lui era propenso nell’interpretare la cosa come un maleficio che gli scorreva nel sangue, visto che da giovane era stato introdotto ai misteri della fattucchieria da una sorella maggiore. Ogni anno a Natale rinnovava l’invocazione a san Sebastiano a protezione della casa, munito di acqua tiepida, una lampada a lume e un piattino (almeno fino a quando trovare una lampada a lume era stato possibile). Poi però niente più lumi, niente più protezione dalle maledizioni.

Tra i tristi, lui sereno, tranquillo, ciarliero. Con la sua mappa mentale della città dei morti: svolta a dx per il fratello, avanti per due tombe e poi a sx per il padre. E infine il suo posto preferito, quasi al centro del labirintico cimitero: la cappella di cemento modernista, ancora vuota di bare, ogni volta da definire con piccoli lavoretti di aggiustamento. Il work in progress dell’ultima casa che avrebbe mai costruito. Gli capitava di pensare che fosse un peccato non poter ancora portare dei fiori lì. Quanto sarebbe stata bella se solo qualcuno si fosse deciso a morire.


Poi era successo l’irreparabile. Dove non avevano potuto nulla le prediche dei famigliari, era riuscito un virus e il telegiornale. L’epidemia di coronavirus gli era calata addosso come una scure. Una febbrile attesa di ogni talk show o di un nuovo tg. Voleva capire, comprendere, studiare, come mai aveva fatto fino allora, lui che a malapena aveva visto un film, figuriamoci leggere un libro. Niente più cancello aperto, anche la spesa gli era stata vietata. Gliela mettevano fuori dalla porta, senza possibili scuse per uscire di casa. Così i farmaci. Una tosse secca insistente come sintomo inquietante e campanella d’allarme per i figli. Sepolto in casa in una cappella costata ben più di 30 milioni. Le uniche abitudini rimaste intatte le chiamate ad amici e parenti, però senza più poter recriminare. Il «perché non ti fai più vedere?» sostituito da saggi avvisi a stare chiusi in casa, rispettosi delle ordinanze. Ma una nota dolorosa affligge la sua voce. Rispettoso, ma anche irrequieto. Si informa con il figlio, en passant, se il cimitero possa considerarsi una necessità e alle sue proteste subito getta nell’ambito della speculazione teorica la sua richiesta: «No, ma tanto io non esco». Anche perché lui lo sa, e lo ribadisce ogni volta, che la sua generazione è target prediletto del virus: con una punta di stizza verso la gioventù considerata come un peccato, visto che lui la sua non se l’è goduta.

Però, nonostante tutto, con la voglia irrefrenabile di aprire quel cancello. Ed ecco come si descrive nelle chiamate ad amici e parenti: una bestia allo zoo, in continuo cammino dalla sala alla camera da letto, e dietrofront. Forse compatendo un poco tutti i canarini che costrinse in una gabbia per anni, per sentirne per dieci minuti o meno il canto, ogni sera al ritorno da lavoro. Lunghe passeggiate come gli animali nevrotici in gabbia, come gli uccelli che sbattono le ali senza poter volare. La voce si fa sempre più lamentosa, ci si informa tra i parenti sulla boccetta di litio, se venga consumata o meno. Lui rassicura, ma si vede che non è la depressione a pungerlo. La mancanza è quella di una comunicazione vera. Con la moglie si scambia solo informazioni pratiche: sessant’anni di matrimonio sono un muro ad ogni conversazione. Al telefono odia starci e ci si costringe solo per bisogno di contatto umano. Tre minuti e la sua pazienza si esaurisce. E poi le interferenze, oltre che le incomprensioni, rendono tutto così irritante. Nessuno lo ascolta come vorrebbe, nessuno che sappia seguirne i percorsi mentali. E il pensiero va sempre ai fiori marci. Alla sporcizia di foglie e fango accumulatasi ai bordi delle tombe. A quella striscia di erbette che ora si insinua sempre più, fin dentro la cappella. Un’insostenibile visione di disordine che gli fa girare il capo e forse...

Si misura la febbre di nascosto, il termometro sempre ben coperto dalla vista della moglie, alla quale dice solo un numero: «36.9». La paura di fare da bersaglio al virus intervallata da rapsodiche ribellioni ad ogni limitazione. Sfoghi di cui è testimone sua moglie. Ha 85 anni, può interessargli fino a un certo punto questa epidemia, «se non è prima è poi», dice. Ribellioni che però lasciano indifferente la donna. E allora lui alza la voce, inizia a sbraitare. Anche se a volte, non gli succede quasi mai lui rassicura, quelli sfoghi gli tolgono tutta la forza che ha e deve sedersi perché sente il respiro mancargli.

Un pensiero si fa largo sempre più nella sua testa. Al primogenito, che lo chiama preoccupato per gli accessi di tosse di cui la madre è testimone, racconta di voler donare con urgenza la casa ai figli. Ha timore che lo stato gli rubi il frutto di una vita di sacrifici al momento dell’eredità e che ai figli non rimanga nulla. Un’ossessione che ripete ad ogni chiamata. Ancora una volta, pensa sempre e soltanto alla casa. «Ma perché proprio ora?» Chiede il figlio. «Devi morire a breve?». Il vecchio muto, non risponde.

È subito dopo il rosario che accade: c’è il solito tg regionale e la prima notizia, nessuna sorpresa, è quella della visita pastorale del vescovo al cimitero. Benedizioni per tutti quei morti abbandonati a sé stessi, senza le cure dei parenti. L’epidemia ha reso ancora più tragica la perdita, dice, rendendo impossibile assistere ai funerali, stare a fianco dei moribondi, anche solo portare un fior sulle tombe. Ecco perché il vescovo Bruno è davanti al cancello chiuso del cimitero e con le tre dita della mano destra alzata benedice il ferro battuto. Il vecchio Peppe alza il volume e si morde le mani, pensando a tutti quei morti freschi. Nessun funerale con i controcazzi per loro. Niente campane a martello, fiori, bara di lusso o accompagnamento regale. Nulla prima del nulla. Eppure è evidente quanto sia fondamentale la ritualità legata al culto dei morti nell’elaborazione del lutto. Si pensi a quelli che non ritrovano il corpo dell’amato, agli scomparsi. Un buco nero che non si chiude mai nel cuore di quelli che restano. Il funerale è fondamentale, i fiori sulle tombe sono fondamentali. Soprattutto per lui. Le parole pronunciate dal vescovo continuano a risuonarli in testa per tutta la sera, anche davanti alla frittata di peperoni che la moglie gli mette nel piatto a cena. Anche con le gambe già coperte dal lenzuolo nel letto. La luce si spegne e lui pensa a quei morti, abbandonati. Domani è l’anniversario della morte del padre e la striscia di erbacce si insinua sempre più. Non riesce a scacciarne il pensiero. Abbandonati due volte: alle cure di prima e alle cure che necessiterebbero ora. Cos’è, i morti non devo essere tutelati dall’epidemia? Deve lasciare i suoi cari soli, ignari in balia degli eventi?

È un sonno violento quello che lo coglie, dopo ore di riflessioni senza posa, col materasso che si trasforma in griglia e lui in salsiccia. Un sonno di sogni violenti. Al nipote, che lo chiama il mattino seguente, racconta il suo incubo. Ha sognato di due suoi fratelli, entrambi morti. Nel sogno erano giovani e litigavano ferocemente nel cantiere di un palazzo in costruzione, sulla riva del mare. Lui cercava di separarli, ma senza successo. Appena si metteva in mezzo tra i due, una qualche forza oscura, una specie di vortice, lo allontanava e poteva solamente guardarli da lontano, come attraverso un binocolo. Il palazzo che pian piano prendeva forma dietro di loro, fino a diventare intero, e loro ancora lì a litigare. Che vorrà mai dire? Il nonno lo chiede ma è più un interrogativo rivolto a sé stesso. Il nipote non capisce, provoca come sempre, sproloquia su ipotetici sensi di colpa del vecchio per essere stato complice della speculazione edilizia, per aver deturpato il litorale. Tu che tanto ti lamenti dei cardellini scomparsi forse ti rendi conto che è stata anche colpa tua. Ma il vecchio non ha tempo per le provocazioni del nipote quel giorno. Nel momento stesso in cui chiude la chiamata una decisione irremovibile si forma nel suo cervello.

Alla nonna dice che andrà ad occuparsi dell’orticello e invece prende mascherina e guanti ed entra in garage. Il cancello si apre per rimanere aperto.


La lancia Delta cammina per le strade semi-deserte, la macchina di un sopravvissuto all’Apocalisse. Poi davanti ad un cancello in ferro battuto si ferma: il vecchio è seduto al posto di guida, davanti alle porte del cimitero, indeciso sul da farsi. Nessun venditore che lo chiami per nome. Stavolta nessun pass gli permetterà di entrare in macchina. Anzi, nemmeno a piedi. Stavolta dovrà fare appello a tutta la forza nelle sue ginocchia logore, nonostante la cicatrice di 15 cm su una delle due, e a tutte le scorte di coraggio che gli sono rimaste. Ma non torna indietro. Prende due tenaglie dal cofano della macchina e aspetta che il sole cali. Poi spezza la catena all’ingresso.


Due tombe a sx, due tombe a dx, dritto per il viale principale e poi 500 m all’angolo. Il giro è sempre il solito. Prima il padre e la madre. Poi il fratello (un lumino si è spento e lui lo fa ripartire. Nel taschino della camicia ha due batterie di ricambio). A ognuno racconta in poche parole tutto quel che è successo. Come in un sogno, non ha bisogno di fare grandi discorsi. Una parola ne condensa mille. E così spiega ai suoi morti che a breve il cimitero si riempirà di nuove conoscenze. Fiori saranno venduti come non mai e questa sarà la fortuna di Tonino, il venditore fuori dal cancello. Racconta che forse è anche peggio della guerra, che hanno vissuto insieme. Certo a quei tempi c’era lo sfollamento, la fame, la scabbia, i tedeschi, le bombe, il nazi-fascismo. Ma il nemico era visibile. Era fatto di carne, sangue e merda: potevi sparargli o leccargli il culo, a seconda della tua dignità. Ora invece devi rintanarti in casa e aspettare che passi; uno è vecchio e già si sente al massimo della vigliaccheria, e poi arriva questo. Ti riduci all’impotenza, nessuna forma di eroismo è possibile. Peggio della guerra, per certi aspetti.

Parlando parlando si ritrova davanti alla sua seconda casa. Non ci si potrebbe muovere da una casa all’altra, da quella principale a quella di villeggiatura, ma il vecchio oramai ha superato ogni limite e non si fa fermare. Toglie i fiori secchi dal vaso e con la sua chiave personale entra dentro la cappella. Strappare la striscia d’erba che si è insinuata, quella che lo ossessionava nella sua cattività domestica, è la più grande soddisfazione della sua vita, in quel momento. Ora è rilassato, tra le tombe vuote, circondato da uno strato di cemento grezzo che fa da muro tra sé e il resto del mondo. Questa è l’unica forma di quarantena che può comprendere. Isolato dal mondo e dalla vita. Si è preso cura dei suoi morti, ora è in pace. E si lascia andare. Si allunga sullo strato di cemento e chiude gli occhi.

Le luci del cimitero si accendono, una dopo l’altra. Come finestre illuminate di un condominio di periferia, vasto e monoblocco. Ne escono figure variopinte, vestite più o meno elegantemente, secondo la disponibilità e la posizione, in vista o periferica nel cimitero. Peppe si sveglia quando sente qualcuno che bussa alla porta di vetro della cappella: a farlo è un uomo anziano, con a fianco un altro, più basso e tracagnotto. Uno ha in mano una bottiglia di vino, l’altro un mazzo di carte: «Che dici fratello, ci facciamo un tressette?». Giocano così, sui gradini della cappella da 30 milioni. La nonna sarà finalmente felice. Il vecchio, stupefatto, che non vuole darsi un pizzicotto per paura di svegliarsi. I fratelli come se si fossero appena riconciliati dopo anni di litigi feroci. Peppe racconta ancora una volta ai due, che non l’hanno mai sentita, la storia dei dieci milioni trasformati in trenta. La storia della sua seconda casa. Il miracolo della triplicazione.

Il cimitero è pieno di vita, mentre fuori, tutt’intorno, le strade sono vuote e il mondo teme la morte come non mai.

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