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Marco Mammarella

La testa nella carcassa

Racconto breve


“Non può andare avanti così”, penso mentre aspetto che esca dal palazzo. Anch’io ho avuto la mia dose di responsabilità. Qualche scappatella di tanto in tanto. Ma appunto, erano scappatelle. Una commessa del negozio Apple. Una tizia che mi riempiva di cuori su Instagram. Solo poche ore insieme, mai più riviste. E se è estemporaneo si può perdonare, perché poi, da vecchio, ricordando il passato, se non cogliessi l’occasione al volo te ne pentiresti. D’altronde stiamo insieme da quando abbiamo 16 anni. Lei è stata la mia prima, io il suo primo. Si può capire. Anche se ammetto la mia parte di responsabilità, davvero. Per lei invece non sono scappatelle. Me lo ha detto fin da subito. “Ho iniziato a frequentare un altro”. Non ho dato di matto, o almeno non subito, ma ci sono due cose che proprio non riesco a mandare giù. La prima è il verbo. “Frequentare”. Non c’è nulla di estemporaneo. Lei vuole conoscere qualcun altro, in un arco prolungato di tempo. Vuole vivere un’intensa e profonda relazione umana, oltre quella che ha con me. La seconda, è che mi fa aspettare davanti al palazzo di lui, devo anche andare a riprenderla. Il carburatore della sua macchina ha ceduto la settimana scorsa. Scendono insieme, lui deve andare a lavoro, presumo: ha un paio di Levi’s stretti e un dolcevita bianco sotto la giacca di jeans. Che cazzo di lavoro fa, mi chiedo. Li vedo imboccare due direzioni diverse passato il portone. Lei lo saluta con un bacio sulle labbra, davanti a me, poi viene a sedersi sul sedile del passeggero e saluta me, con le stesse labbra. Ma non è esattamente questo a irritarmi. Anzi, potrebbe anche eccitarmi sotto un certo punto di vista. Invece, ciò che mi infastidisce enormemente è che gli altri possano vederla con lui e pensare che sia la sua ragazza. Che le sue amiche sappiano che io tollero tutto questo. E che lei non tenti di farsi perdonare. Per lei è tutto normale: non si sdebita, non si giustifica. Non mi lascia. Appena sale in auto comincio a recitare la mia parte: non può andare avanti così, penso davvero stia finendo. “Perché non ti decidi a lasciarmi?” le chiedo. “E tu?”. Per tutto il tragitto continuo a ripeterle che non ci amiamo più, è palese oramai. Lei però stamattina non ha voglia di recitare, non mi ascolta nemmeno. Guarda il telefono e sorride come una cretina allo schermo. “Parli con lui mentre sei con me?” Non è lui, me lo assicura. È una ragazza che lavora alla casa editrice. Ancora una volta un colpo allo stomaco, il sangue che affluisce nelle mutande: sta pure diventando lesbica, ci mancava solo questo. Non fa differenza che si tratti di una fantasia oppure sia davvero così. Dal punto di vista neuronale fantasia e realtà sono la stessa cosa. La vedo baciare la sua collega di lavoro, come ha baciato lui. È già accaduto nella mia mente, le sensazioni sono del tutto reali. La strada è bloccata. C’è stato un incidente e così rimaniamo imbottigliati nel traffico, imprigionati dentro la macchina. “Te lo giuro, io domani prendo la mia roba e me ne vado. Giusto il tempo di trovare un altro posto”. Solo in quel momento si gira a guardarmi. Mi dice che non può farci nulla, deve fare quello che sente. “Con te è diverso però, lo sai anche tu”. Finalmente riusciamo a uscire dal traffico: sfiliamo lentamente davanti a uno scooter piantato contro il guardrail. C’è solo qualche vetro infranto, nessun corpo. Sono un po’ deluso, lo ammetto. Da quando è morta sua mamma sei mesi fa, l’ultimo pezzo rimasto della sua famiglia, ha smesso di parlare di figli, o di una grande casa con giardino dove coltivare datterini gialli. Non abbiamo più fatto una foto insieme, anche se nel frattempo siamo stati a Parigi, fin sulla cima della Torre Eiffel. Ci abbiamo provato, ma non è servito a granché. La città più romantica del mondo non ha funzionato. Neanche un selfie, e se provavo a chiederle una foto lei diceva solo “Godiamoci il momento”. E poi ha smesso di baciarmi. Lei torna a casa, litighiamo e scopiamo. Tendenzialmente è questa la nostra routine da sei mesi a questa parte. Ma non ci baciamo quasi più. Continuiamo a dormire nello stesso letto: lei stesa dall’altro lato, pian piano si avvicina fino a stringermi a cucchiaio da dietro. Io che la lascio fare, fingendo di dormire. Niente baci però. Siamo quasi arrivati a casa quando mi dice di fermarmi in tabaccheria per prendere le sigarette. Ma non c’è nessuna tabaccheria, solo un enorme centro commerciale ai lati della statale. Fermati lì, mi dice. Obbedisco perché mi piacciono i centri commerciali, anche se non avrei granché voglia di darle questa soddisfazione. Io vado a vedere le TV in vetrina. Ce ne sono di fantastiche, curve ai lati e sottilissime, con i documentari naturalistici sulla savana. Puoi vedere le pulci su quel cazzo di pelo di zebra. È ammaliante; una delle cose che preferisco, fin da quando ero piccolo. Meglio della meditazione, per me. Lei va in tabaccheria per un pacchetto di Marlboro Gold. Paga con 10 euro e il resto lo usa per comprare un gratta e vinci. “Il quarto dall’alto, per favore” la sento dire, e sorrido. Ci siamo incontrati la prima volta il 4 settembre del 2010. Il primo giorno di scuola al liceo classico Manzoni, terzo superiore. Me lo ricordo perché è anche il giorno del mio compleanno. Ma smetto subito di sorridere, lei mi guarda. Perché ha comprato quel gratta e vinci? Non che sia una cosa abituale. Vuole dimostrarmi qualcosa, forse. Si sente fortunata? Un leone sta divorando una gazzella. La testa infilata dentro la carcassa, come fosse la gazzella a inghiottire il leone. È in quel momento che mi accorgo che lei ha iniziato a saltare. Salta e urla come una matta. Non connetto subito, la vedo correre verso le casse dell'Esselunga. Prende di forza il microfono della cassa e inizia a urlare: “Ho vinto! Ho vinto un milione di euro. Un milione di euro!”. Ripete le cose due volte come per convincersene. Non fa in tempo a finire che le tolgono il microfono dalle mani, ma c’è subito qualcuno che accenna un timido applauso, il sorriso storto di chi finge di rallegrarsi. È solo in quel momento che mi rendo conto di quanto è successo. Lei si avvicina e mi butta le braccia al collo. Le chiedo: “Abbiamo vinto davvero?”. Lei però precisa: “sì, ho appena vinto un milione di euro”. Un’altra fitta intercostale per me. È felice come non l’ho vista più da tempo, non riesce a stare ferma. Io invece sono un estraneo. Una pianta, un minerale. La carcassa di una gazzella. Scatto: “Come ‘hai vinto’? E io? Tutto quello che ho fatto e sopportato per te?”. Mi abbraccia e mi dice “Una parte è per te, giuro”. Spero intenda almeno 100mila euro. Quelli penso basterebbero, io so come far fruttare il denaro. “Hai fatto una cazzata con quell’annuncio. Non devi dirlo a nessuno finché non hai preso i soldi.” Le faccio. “Perché?” “Non c’è il tuo nome sul biglietto. Basterebbe che qualcuno lo prendesse perché diventasse suo”. Rimaniamo a guardarci per un attimo. Già, penso, basterebbe che qualcuno la prendesse perché diventasse sua. L’unica forma di amore che conosco è la proprietà. Vedo che d’un tratto si paralizza; la pallottola è andata a segno, anch’io ho imparato nel tempo a farle del male. “Davvero? Pensi che qualcuno potrebbe…?”. Non conclude la frase. Mette il biglietto nel reggiseno e mi chiede di andare via. Le gira la testa, dice. Mi avvicino per premerle una mano contro la fronte. Il suo seno addosso, sento il biglietto di cartone puntare con l’angolo verso il mio petto. “Si, sarebbe facilissimo”. Non usciamo dall’ingresso principale. Le faccio strada nei corridoi che portano ai bagni, c’è un’uscita di emergenza lì, a pochi passi dalla nostra macchina. Una coppia che ha assistito al suo annuncio cerca di farci i complimenti. Dicono che con tutti quei soldi possiamo mettere su casa dove vogliamo: è una benedizione per una coppia giovane come la nostra. Lei è stordita, balbetta qualcosa. Forse pensa all’orto con i datterini, al casale del ‘600 nelle langhe piemontesi. Io non ci penso di sicuro: scaccio la coppia con qualche parola e prendendola per mano la trascino nei bagni per i disabili. “Aspetta qui, controllo che non ci sia nessuno fuori. Ci incontriamo alla macchina tra 5 minuti”. Lei fa subito segno di sì. Ora sono io ad essere fuori di me dalla gioia. Come fossi un agente segreto in missione, l’adrenalina che mi riempie di energia. Prima che io esca dal bagno mi blocca per una manica e mi bacia sulle labbra. Mi dice che mi ama. Il “ti amo anch’io” parte in automatico. Stavolta però mi sorprendo a pensare che ci credo davvero al suo amore. Riesco realmente a sentirlo, come fosse un qualcosa di solido che ha appena messo nelle mie mani. Esco dal bagno dopo averle dato un’ultima occhiata. Credo davvero che stia finendo.

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