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  • Marco Mammarella

Il cuore del carciofo

Breve racconto autobiografico


Uno pensa di cambiare nel corso del tempo. Hai 12 anni, e sei in un modo. Poi 16, 18, 22, e così via. Ogni volta pensi di aver colto un pezzo della tua personalità: ti ritrovi davanti a delle scelte, e a seconda di come agisci, capisci chi sei. Tutto vero, tutto molto giusto. Ma più vado avanti, più mi rendo conto che, per quanto possa cambiare, la mia personalità si innesta su un nucleo forte e non scomponibile. Una specie di cuore del carciofo, su cui, strato dopo strato, crescono foglie tenere e saporite, o marce e spinose. Puoi aggiungere o togliere foglie; ma il cuore del carciofo, la parte più deliziosa, rimane; e dà il gusto al tutto. Non ne ho la certezza matematica, ma dagli aneddoti che mi hanno raccontato i miei, mi rendo conto di quanto tutto quello che sono oggi, già lo ero in potenza a tre anni; e forse sono condannato ad esserlo fino alla fine.

Tutto iniziò con un canarino e una mela (sarebbe stato più d’effetto un carciofo; ma ahimè, ai canarini i carciofi fanno schifo). Avevo tre anni, e mamma e papà erano preoccupati: non riuscivo ancora a pronunciare una parola compiuta, e numerosi erano i dubbi sulla mia intelligenza. Sapevo biascicare solo gli indispensabili nomi dei componenti della mia famiglia: ma-ma, pa-pa e Titti (mia sorella Martina), ma oltre, c’erano solo versi e gesti animaleschi.

Solo mamma e papà erano in grado di interpretarmi. Con mamma, mi bastava anche solo un gesto per farmi capire. Se avevo fame, spalancavo la bocca e facevo dei suoni gutturali, indicando con l’indice il palato. Se avevo sete, ansimavo a lingua di fuori, come un cane, e subito mi veniva data dell’acqua. Se volevo fare pipì, incrociavo le gambe e continuavo a stropicciarmi lì sotto. Insomma, nonostante tutto, i bisogni primari riuscivo a soddisfarli, e questo bastava a placare le ansie dei miei genitori.

Almeno fino a quando feci fuggire Milo dalla sua gabbia. Milo era un canarino ossessivo compulsivo, che sbatteva da un lato all’altro della sua prigione, ridotto alla follia da anni e anni di cattività. Un giorno aprii la sua gabbietta, e il prigioniero, colta l’occasione, fuggì via per sempre.

Forse con lui riuscivo a comunicare attraverso i gesti, e mi aveva confessato il suo desiderio di libertà. Non ricordo bene. Fatto sta che mia madre mi ritrovò con la mela del canarino maciullata in bocca, e i sospetti dei miei genitori divennero certezze: ero evidentemente scemo. E probabilmente anche portatore di epatite B, dopo quello. (miracolosamente non mi presi nulla, come risultò poi da analisi). Così decisero di portarmi da un esperto dello sviluppo cognitivo infantile. Un professore di quelli dagli occhiali spessi e dalle attese mensili. Ci vollero settimane prima di riuscire a contattarlo e nel frattempo, aumentava la preoccupazione dei miei per il mio futuro. Era iniziato l’asilo e la mia incapacità comunicativa cominciava ad avere delle ripercussioni. Le maestre non capivano nulla di ciò che dicevo, così non facevo in tempo a chiamarle per andare al bagno; capitava spesso che mi pisciassi sotto. Piangevo e nessuno mi capiva. E i miei rapporti con gli altri bimbi erano limitati dal mio mutismo. Questo probabilmente mi creava un certo disagio: ogni mattina, infatti, lungo il tragitto verso l’asilo, o dentro l’asilo stesso, vomitavo a più non posso. E poi non mangiavo nulla; neanche un pezzo di pane (il che doveva porre degli interrogativi spaventosi sulla salute di quel paffutello cucciolo di 3 anni). Le maestre arrivarono a chiamare casa, terrorizzate dal fatto che mamma potesse pensare male di loro (c’era già allora lo spauracchio degli asili dell’orrore). Dissero a mia madre che, dopo i primi giorni di iniziale mutismo, avevo iniziato a comunicare come un piccolo sordomuto, convertendo al mio improvvisato linguaggio dei segni anche altri bimbi, che erano lentamente regrediti alla fase pre-vocale (probabilmente ci sarebbe stata una protesta dei genitori se le cose fossero continuate così a lungo).

I miei continuavano ad attendere che il medico si liberasse, ma le cose precipitarono velocemente.

Un giorno infatti, mio padre, decise di portarmi a fare un giro con la bicicletta. Montò il seggiolino, e mi legò con la cintura. Io facevo incomprensibili versi da dietro, che a papà dovevano suonare come un rumore di sottofondo. Solo quando iniziai a piangere e strepitare si voltò verso di me, e si rese conto che il mio piede era rimasto incastrato tra i raggi della ruota. Come avrei dovuto dirlo con le mie poche sillabe? Impossibile. Il risultato fu una lesione del tendine e la gamba immobilizzata per tutta l’estate: col gesso anche al mare, le foto di quel periodo mi ritraggono sempre imbronciato. C’è n’è una in particolare; sto sul balcone di casa col piede ingessato, e il sole in faccia che mi spinge a socchiudere gli occhi; sembra che io abbia qualcosa da dire, ma non riesca a dirla. Probabilmente un enorme vaffanculo. Il medico nel frattempo era tornato dalle vacanze e aveva finalmente fissato un appuntamento. I miei si prepararono a ogni tipo di diagnosi. Un ritardo nello sviluppo cognitivo? Una qualche forma di disturbo dell’attenzione? Autismo? Erano terrorizzati.

E così, ci ritrovammo davanti al grande luminare della mente infantile. L’uomo che avrebbe giudicato la mia intelligenza una volta per tutte. Non ricordo la visita, ma i miei mi raccontarono anni dopo, che mi misero davanti delle figurine, e provarono a convincermi a ripetere dei suoni. Il gallo però rimaneva “ga” il cane “bao” etc. etc. Nessuna speranza: il medico già mi dava per spacciato. I miei uscirono da quello studio nella consapevolezza di dover crescere un bambino problematico, pronti a costose terapie per strapparmi al mio mutismo. Leggenda narra (ma questo è mio padre che mi provoca, ci scommetto) che il luminare, tra le righe, mi definì un po’ coglione.

Fu di mia nonna (la saggia, vecchia nonna) l’idea di portarmi da un anziano pediatra che era stato lo stesso di mia madre e dei miei zii; nonché delle mie cugine e di tutta la famiglia. Insomma, lui conosceva il Dna. Non si fece impressionare dalle altisonanti diagnosi del luminare; anzi, fu sospettoso fin dall’inizio dopo i racconti di mia madre. Mi mise seduto su una sedia; non provò neanche a farmi pronunciare delle parole. Semplicemente, posò un cioccolatino sul tavolo. Io, da bravo ingordo, subito mi eccitai. Iniziai a mugugnare versacci da scimmietta; volevo quella cioccolata: indicavo la bocca e mi agitavo; mamma era già pronta a consegnarmi il dolciume, rassegnata. Ma il dottore le disse di fermarsi. “Fai finta di non capire cosa intende”, disse. Io continuavo a sbracciarmi, irritato. Divenni rosso, mi incazzai, iniziai a piangere: possibile che tutt’un tratto mamma non mi capisse più all’istante, come al solito? “Che vuoi Marco? Non capisco”: mi stavano prendendo per il culo, lei e quell’altro. Così, costretto dalle circostanze, bramoso di deliziosa cioccolata, completamente scazzato, fui costretto a sforzarmi: “laca-laca” divenne “lata-lata”; ma quelli continuavano a non capire. Allora articolai meglio le parole, e dissi “coccoata”, e poi “cioccolata”. Ma non bastava ancora; così infine lo dissi chiaramente, in italiano perfetto: “oh, che cazzo, datemi ‘sta cioccolata!”.

No, forse qui il mio istinto romanzesco ha preso il sopravvento; non avvenne proprio così, ora che ricordo bene. Non imparai a parlare in quell’istante; quella fu solo la rivelazione di un grande fraintendimento. Non ero scemo; solo pigro. Imparai a farlo nei mesi successivi, con i miei che continuavano a far finta di non capirmi, e io che mi trovai obbligato, a 3 anni e mezzo, ad iniziare ad articolare lettere e sillabe. Certo, questo migliorò le mia relazioni con gli altri. Ora alle maestre glielo dicevo chiaramente quando mi scappava. E il piccolo club dei sordomuti dell’asilo fu sgomberato. Ma il vomito che accompagnava le mie giornate scolastiche continuò per un pezzo. Quello rimaneva un mistero irrisolto. Le maestre erano ancora preoccupate, e anche lì, stava per essere scomodato un altro luminare. Fino a che un giorno, uscendo di casa, iniziai a frignare e tirare la giacca di mamma. Non volevo andarci a scuola, ma mia madre pareva decisa. Così, col vocabolario faticosamente acquisito in quei mesi, chiesi: “Mamma, ma se io gomito, mi ci porti lo stesso all’asilo?”. Lei si fece una risata. In quel momento, capì com’ero fatto.

Forse ho sempre dato per scontato che le parole non fossero sufficienti per esprimere quello che avevo dentro; forse, è proprio questa ritrosia al linguaggio verbale che mi ha spinto alla scrittura e al cinema; o forse, e questa è l’opzione che mi convince di più, aveva ragione il luminare, e un po’ coglione lo sono sempre stato e sempre lo rimarrò.

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